Antiche masserie e produzione granaria nel territorio troinese

Volendo ripercorrere una succinta genesi sull’evoluzione della masseria in Sicilia e, di conseguenza, anche di quelle presenti nel territorio di Troina, occorre ricordare come fra tardo antico e prima età bizantina la massa rappresenta una estesa proprietà terriera con al centro un complesso di edifici, la cosiddetta villa rustica, facente parte di quell’immenso patrimonio fondiario siciliano legato alla Chiesa. In questo contesto il latifondo, declinato sotto i musulmani, ricompare con i Normanni, ricostituendosi attraverso la pastorizia e la cerealicoltura estensiva; ma ancora, fino a questo periodo il termine “massaria” o “masseria”, rappresenta un territorio rurale ed un modo di organizzare la produzione agricola. Il termine, se in un primo momento indica la grande proprietà tardo-romanica, passando per quelle forme di sfruttamento agricolo del territorio tipico del basso Medioevo, in un secondo tempo indica anche l’edificio, punto di appoggio dell’impresa agricola. Non grandi fabbricati ma la prevalenza di pagliai, utili ad alloggiare gli aratori ed i mietitori per il tempo strettamente occorrente alle operazioni colturali. Pertanto, per tutto il Medioevo, “fari massaria” ha per significato il prendere in gestione, per un breve periodo, di solito per tre anni, un feudo o una grossa porzione di terreno per coltivarlo a grano.

La voce massaria viene riscontrata a Troina, comune del Valdemone di antica demanialità, a partire dalla seconda metà del ‘300, anche se la stessa ottiene una certa diffusione nel ‘500 e, da questo periodo, la masseria diviene un’azienda agricola stabile costituita anche da un complesso di edifici.

Tra i riferimenti di antiche masserie presenti nel territorio di Troina, con ogni probabilità sopravvivenze di antichi casali, tra il 1355 ed il 1375 ne vengono menzionate due, rispettivamente in contrada Vallone di Scarigluso ed in contrada Chappi de Franco.

Successivi riferimenti di masserie ad indirizzo cerealicolo, attestati nel XV secolo nell’ambito del vicino territorio Randazzo nelle contrade Carcaci, Cattaino e Spanò e località limitrofe, quale per esempio Placa Bayana, annessa in quel periodo al territorio di Troina, hanno per oggetto alcuni contratti di locazione nella forma «ad faciendum massariam», oppure di contratti dove il proprietario del terreno si rendeva partecipe della conduzione, nella forma «societas ad faciendum massariam»; atti stipulati, per lo più, all’inizio dell’anno indizionale e quasi sempre per la durata di tre anni, con la successiva conseguente suddivisione del raccolto, il cosiddetto «lucrum» nelle stabilite proporzioni.

Successivamente, nei primi anni del ‘700, la masseria troinese, intesa come struttura edilizia, è costituita da un agglomerato di costruzioni basse e terranee che possono anche chiudere un cortile, il cosiddetto baglio. Vi si possono distinguere la casa padronale, l’unica a volte a due elevazioni, le stalle (‘i ‘mpinnati), i magazzini (‘i masazena), il fienile (‘a pagghiera); i locali dove era posto il forno (‘a pannittarìa) o si produceva la roba (‘a ribattarìa); infine, in pochi casi, altri caratteri identificativi quali la chiesetta ed il bevaio (‘a biviratura).

Nella toponomastica troinese più antica, oltre alle già menzionate masserie del 1355 in contrada Scarigluso e del 1375 in contrada Chappi de Franco, si riscontrano una serie di masserie menzionate nel XVI secolo, quali, nel 1552 la massaria di Zaccane, mentre nel 1557 la massaria di Ricciardello e la massaria di Mendula; infine, nel 1573 la massaria Castili. Uno dei pochi toponimi riportati ancora nell’attuale cartografia è Massaria Vecchia, la cui località, attestata nel 1573, è da intendersi non solo come presenza di un edificio adibito a masseria, ma anche come podere o tenuta in cui si faceva massaria. Tra i riferimenti più recenti si fa menzione nel 1741 della massaria della Sorba del Suaro.

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Masseria in contrada Lavanche

Caratteristiche masserie, casene e ville-masserie individuate nell’ambito dell’antico territorio di Troina, qualcuna ormai ridotta a rudere o riattata senza alcun intervento conservativo, nelle quali si riscontrano ancora le date di fondazione o, meglio, di rifondazione, incise negli stipiti – ricostruite dopo il devastante terremoto di fine ‘600 – sono le seguenti: casena Scarvi (chiesa 1702), masseria Licciadello (portale 1704), masseria Ancipa (stipite 1715), casena S. Michele-Sotto Badia (chiesa 1731), masseria Stingi (chiesa 17…), casena S. Paolo (stipiti 1740 e 1868), masseria Sanguisuga (stipite 1764), casena S. Silvestro-Sotto Badia (stipite 1765), masseria Pianazzi (cantonale 1778), casena Manca di S. Antonio (stipite 1791), masseria Iudeo (portale 1800), casena Lochicello-Sotto Badia (pilastro 1804), masseria Carbone (chiesa 1815), masseria S. Francesco (architrave 1838), masseria Serro Bianco (stipite 1840), masseria Schiddaci (stipite 1859). Altre masserie da annoverare, non meno importanti delle precedenti, quasi tutte attestate già nel XVII secolo e riportate successivamente in tempi recenti anche nelle mappe dell’I.G.M., sono le seguenti: Balsamà, Barbò, Borgonuovo, Ciappulla, Corvo, Cota, Epìscopo, Ferraro, Giunta, Maddalena, Marchesini, Ospedale, Pianazzi, Piano Vecchia, San Cristoforo, Santa Domenica, Torre Naso, Uliveto.

Edifici correlati alla masseria erano anche i mulini ad acqua, ubicati in prevalenza lungo il corso del Fiume Troina; in secondo luogo i palmenti per la pigiatura dell’uva, realizzati dove maggiore era la coltivazione dei vigneti; infine, ma in periodi più recenti, sul finire del ‘700, con l’espansione dell’uliveto, i frantoi o trappeti.

Contestualmente ai diversi conventi e monasteri presenti a Troina, proprietari di ingenti superfici di terreno, anche alcune famiglie locali portano a termine un processo di recupero del post terremoto del 1693, non solamente nell’ambito urbano ma anche in aree extraurbane, avviato in una prima fase soprattutto dai padri basiliani del monastero di San Michele Arcangelo. Il fenomeno più interessante che andrà a trasformare lo spazio esterno della città è legato all’edificazione, oltre che del grandioso monastero di San Michele, denominato il nuovo, anche di alcune ville gentilizie, secondo una moda già consolidata in altri centri, la creazione cioè di veri e propri luoghi di villeggiatura, realizzati in massima parte in posti ameni, recuperando, ampliando o ristrutturando masserie ed edifici già in parte esistenti. La villa o casena, oltre all’abitazione padronale, in alcuni casi è abbinata ad edifici limitrofi od attigui (l’alloggio per il massaro, le stalle, la scuderia, i magazzini, gli ambienti di trasformazione dei prodotti ottenuti dal fondo agricolo – trappeto o palmento), ed in questo caso sarà denominata villa-masseria, edificio inteso non come luogo di distacco dal centro abitato, ma come segno di distinzione. Un esempio tipico rimane l’area rurale denominata Sotto Badia, poco distante ed a valle dell’abitato di Troina, la quale verrà trasformata, con una diversa gestione e destinazione d’uso dello spazio, sia dalla classe elitaria troinese e sia da alcuni monasteri e conventi, nel particolare basiliani e carmelitani; stesso esempio per le località Sant’Antonio e Scarvi.

Tutto ciò dimostra come la forza economica, sia della Chiesa e sia dell’aristocrazia, era basata soprattutto sulla coltivazione del grano, prodotto strategico indispensabile nell’alimentazione della popolazione europea. Ma mentre la crescita della produzione cerealicola siciliana continuerà a realizzarsi nei secoli, senza però effettuare le necessarie riforme alla struttura feudale, altri paesi europei cercheranno di avviare invece una riorganizzazione del loro sistema agricolo produttivo.

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Villa-masseria in contrada Cota

L’estensione territoriale di Troina nella prima metà dell’Ottocento raggiunge una superficie di circa 24.000 salme legali (pari a poco meno di 42.000 ettari); si tratta però di una estensione fittizia poiché, di fatto, più della metà dello stesso territorio è occupata, così come riportato in una relazione datata 7 gennaio 1830, a firma congiunta da parte dell’allora sindaco Dr. Marco Chiavetta e dal parroco Sac. Giuseppe Stazzone «…da boschi incoltivabili, d’alpestre montagne e luoghi inaccessibili ove non accosta l’aratro, ma sono inutile residenza delle gran nevi e dei giacci che vi dormono per la maggior parte dell’anno…il territorio adunque [quello coltivabile] della comune di Troina è posto a sud ovest…».

Il Fiume Sopra Troina, che al giorno d’oggi svolge funzione di spartiacque, poiché confinante con buona parte del territorio di Cesarò, a quei tempi era quasi del tutto annesso all’interno del territorio di Troina; ed oltre le sponde di tale fiume i terreni erano per buona parte posseduti e gestiti da troinesi. Non è un caso che alcune delle masserie condotte proprio da cittadini troinesi ed attestate nel XIV secolo, sono proprio ubicate in tali territori.

La produzione granaria, pertanto, per molti secoli in Sicilia rappresenterà una delle principali ricchezze, estendendosi con le sue coltivazioni anche nelle zone più interne dell’Isola, con la constatazione che la spiga, intesa come attività cerealicola, ridimensionerà l’allevamento.

A Troina, come dappertutto in Sicilia, si produce maggiormente un frumento adatto alla panificazione, la cosiddetta robba forte o grano duro, dalla quale si ottiene la semola. È questa la specie più diffusa e coltivata, capace dopo il raccolto di mantenersi inalterata più a lungo, adatta alla costituzione di scorte e resistente al trasporto, ma pagata a prezzi inferiori. Tale frumento, denominato delle montagne, proviene in massima parte, oltre che dalle campagne di Troina, dai territori di Cesarò, Randazzo e Francavilla, ma anche da Leonforte, Assoro, Agira e Regalbuto; esso è riconosciuto commercialmente di buona qualità, asciutto, con un peso medio elevato; anche il prezzo è buono, in media più alto di quello dei caricatori. Meno utilizzato della robba forte è il cosiddetto grano duro a semina primaverile o Tumminìa; infine, la Roccella o Maiorca, è il grano tenero, la cosiddetta robba janca che fornisce un pane bianco ma di difficile esportazione poiché suscettibile al riscaldo.

Antiche varietà di frumento riscontrate a Troina sono, tra i grani duri (Triticum durum = robba fuòtti), oltre alla Tumminìa, denominata anche Timilìa o Trimilìa, la Scavuzza, la Napulitana, la Giustalisa e la Castigghiuna; ed ancora, le varietà Priziusa, Bivì, Francisa, Tripulùni e Tripulìnu; infine, la Ciciredda o Parmintedda. Tra le varietà di grano tenero, invece, (Triticum aestivum o vulgare = robba lèggia o janca), oltre alle già ricordate Roccella o Majorca, si annoverano la Canna Masca o Urlìa Vacanti, la Russulona, la Siminzedda, la Gentili e la Cuccitta o Cuccìa. Nel particolare, le cariossidi di quest’ultima varietà venivano consumate anche bollite, uno dei sistemi per sfuggire alle gravose imposizioni fiscali cui venne soggetta la macinazione nel corso dei secoli.

Occorre precisare che per Troina, una salma di grano duro, intesa come misura di capacità per gli aridi, corrisponde a kg 275,0888, se riferita a quella legale, detta anche alla grossa (pari a 16 tumoli) ed a kg 343,8611 circa, se riferita a quella locale o abusiva (pari a 20 tumoli). Una salma legale risulta pari a 16 tumoli, equivalente a 4 mondelli, dei quali un mondello corrisponde a 4 garozze. Nel particolare, facendo riferimento alla salma legale di frumento, corrispondente a kg 275 circa, intesa al colmo, un tumolo risulta pari a kg 17,19, un mondello a kg 4,30 ed, infine, una garozza, a kg 1,07.

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Tuttavia, sul grano esportato ha una sua incidenza il costo relativo al trasporto, a carico del produttore o del venditore; pertanto, le produzioni delle aree interne, tra cui quelle di Troina, rimangono meno competitive a fronte di un prodotto di buona qualità. Il grano si trasporta quasi esclusivamente attraverso le cosiddette rètine, carovane di muli nelle quali ogni animale può portarne sul proprio basto un massimo di quattro sacchi, pari a non più di 140 chili, corrispondenti a mezza salma legale.

Per l’esportazione del grano fuori dalla Sicilia vi erano i cosiddetti caricatori, magazzini pubblici di deposito dei grani, situati in alcuni punti costieri, sui quali la Corona vi riscuoteva un diritto, ossia un prelievo fiscale, e dai quali veniva commercializzato tutto il grano diretto all’estero e buona parte di quello venduto nel Regno; nei caricatori avvenivano le speculazioni sul prezzo e sui flussi di mercato, l’apertura e la chiusura delle esportazioni di frumento dalla stessa Isola. Per le produzioni granarie troinesi da esportare, pare che il caricatore usuale sia stato quello di Acquedolci sulla costa tirrenica, dipendente da San Fratello ed inserito tra i porti più movimentati di Termini e Patti, destinato ad acquisire i grani del Valdemone ed a promuovere la messa a coltura del grano in alcune zone ancora dedite all’allevamento brado. È così che Acquedolci vedrà confluire i frumenti anche dalla terra di Troina dove erano presenti parecchie masserie che coltivavano grano. Infine, è da menzionare un ulteriore caricatore, posto in questo caso nell’entroterra siciliano, ubicato nella terra di Regalbuto ed utilizzato come ammasso provvisorio del grano prima del suo trasferimento nei caricatori costieri. Dai porti siciliani le spedizioni dei grani raggiungevano Genova da dove, successivamente, si approvvigionavano Spagna e Portogallo; gli stessi caricatori furono in Sicilia definitivamente aboliti nel 1819.

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Nell’ambito della coltivazione e produzione del grano, nei terreni facenti capo alle masserie veniva effettuata la classica rotazione denominata a terzerìa, suddividendo cioè il terreno in tre distinti appezzamenti: il primo a pascolo, il secondo a maggese o a fave, il terzo a grano. Tale pratica colturale la si ritrova già riportata in Sicilia in un documento di metà ‘400 con la seguente attestazione: «una tertiam partem restuciarum, aliam tertiam partem vocata li jumati, reliquam tertiam parte seminare. Pratica consolidata anche nel territorio troinese, poiché li jumati sopra riportati, non sono altro che quei terreni lasciati a maggese, attestati attraverso la toponomastica con contrada Gumato, dall’arabo qumayt col significato di striscia o fascia di terreno o, in genere, appezzamento di terreno.

Sui vantaggi, sulle necessità e l’utilità di effettuare le terzerìe si esprimeva sul finire del Settecento, ancora una volta ed in maniera favorevole il principe Pietro Lanza, autore delle memorie sulla decadenza dell’agricoltura in Sicilia; ed anni dopo, nei primi dell’Ottocento, a proposito delle terzerìe, anche l’abate Pietro Balsamo, ebbe modo di constatare in Sicilia tale genere di rotazione, riportando successivamente, nelle sue memorie, la descrizione sull’impostazione di tale pratica agronomica: «Nell’antico sistema dell’agricoltura di Sicilia tutti i feudi si dividevano in tre parti, una delle quali si seminava a grano, una si lasciava ad erba, ed in un’altra si facevano i maggesi preparatorii alla semina del grano. Con questo sistema la stessa terra un anno riposa ad erba, l’anno dopo si maggesa, ed al terz’anno si semina a grano…».

Nelle operazioni colturali del frumento, le prime fasi legate alla lavorazione della terra restano affidate alla forza degli animali da tiro, i buoi, aggiogati all’aratro di legno. I bovini, infatti, erano preferiti, rispetto agli equidi, nei terreni pesanti in quanto il loro passo lento e poderoso, come pure la loro robusta struttura fisica, permetteva di vangare e sollevare (in dialetto ammaisari), una consistente quantità di terreno. Il tipo di aratro trainato da una coppia di buoi, o pariglia, denominato a chiodo, era costituito da una semplice struttura in legno, comprendente il giogo, la bure ed il ceppo al quale vi si attaccava il vomere di ferro.

L’aratura aveva inizio a partire dall’autunno, dopo aver preparato il terreno in estate mediante l’estirpazione delle erbe infestanti. Poiché l’aratro a chiodo non riusciva a rovesciare le zolle, lasciando tra i solchi una striscia di terra non frantumata, si rendeva necessaria una lavorazione incrociata del terreno. Tale pratica, se effettuata da una sola pariglia di buoi, assorbiva parecchie giornate di lavoro per ogni salma di terreno; evidentemente, al fine di accorciare i tempi ed evitare così l’avvento delle prime piogge, per ogni appezzamento venivano impiegate più pariglie di buoi.

Anche in questo caso occorre precisare che una salma di terreno, intesa come misura di superficie, risulta pari a 16 tumoli, quest’ultimo equivalente a 4 mondelli, dei quali un mondello corrispondente a 4 garozze. Pertanto, una salma legale corrisponde ad ettari 1,746259, mentre una salma locale, nell’ambito dell’agro di Troina, corrisponde ad ettari 3,429010 (= mq 34.290), dei quali un tumolo ettari 0,214313 (= mq 2.143), un mondello ettari 0,053578 (= mq 536); infine, una garozza pari ad ettari 0,013394 (= mq 134).

Alle prime piogge, coincidenti con il periodo di tardo autunno, si ritornava a volte ad arare per la seconda volta, sempre in senso obliquo ma perpendicolarmente al primo solco, incrociandolo a reticolo, al fine di eliminare tutte quelle erbe spontanee che nel frattempo erano cresciute.

Finalmente, completati i lavori di aratura, entro metà novembre si procedeva ad effettuare la semina dei cereali (grano ed orzo) col sistema a spaglio, denominato anche a purvinu, mediante l’impiego delle pariglie di buoi; ogni aratro era seguito da uno o due uomini provvisti di zappa, i quali avevano il compito di frantumare le zolle e di coprire il seme.

Il quantitativo di sementi utilizzate, in base a parametri impiegati dai contadini troinesi fino al dopoguerra, era il seguente: per una salma di terreno (= ettari 3,429010) da seminare a grano, si impiegavano circa 2 salme di sementi (= q.li 5,501776), pari a circa kg 160 ad ettaro.

Terminata la semina, quando le piantine di grano raggiungevano l’altezza di alcuni centimetri (‘u lavuri), coincidente in quest’area con il mese di febbraio-marzo, si eseguiva la pulitura del terreno seminato attraverso la cosiddetta zappuliatina, una sorta di sarchiatura effettuata mediante l’utilizzo di zappette. Era questa, assieme alla successiva scerbatura, l’operazione colturale che assorbiva un gran numero di braccianti jurnatara. A maggio, pertanto, ultima operazione prima della mietitura del grano, si procedeva alla scerbatura mediante l’impiego di un ulteriore numero di braccianti; quest’ultima operazione consisteva nel selezionare le spighe, scartando quelle spurie, ed asportando manualmente tutte le infestanti. Solitamente, in base alle possibilità, si preferivano per tale genere di lavoro le donne ed i ragazzi ai quali veniva corrisposto un salario più basso. Occorre qui specificare che una giornata lavorativa di un giornaliero era costituita da quelle ore che, in base alla stagione, andavano dall’alba al tramonto con una sosta per la cosiddetta colazione o per il pranzo. Il luogo dove i lavoratori si recavano a zappare o, successivamente, a mietere, era definito antu, ossia quella linea obliqua che si formava quando gli stessi lavoravano in fila l’uno dopo l’altro.

Infine, a metà giugno si iniziavano le operazioni di mietitura, le quali duravano fino alla fine del mese ed oltre. Su una salma di terra potevano lavorare all’incirca fino a 10 mietitori; da un certo numero di steli ottenuti dal frumento mietuto, denominati iemmiti, si creavano i mazzi che, legati tra di essi, componevano la cosiddetta regna.

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La mietitura era ed è ancora una operazione che occorre compiere con particolare sveltezza, al fine di evitare che le spighe si deteriorino se non raccolte a momento opportuno. Dopo l’asciugatura al sole dei covoni, periodo variabile da una a due settimane in funzione del clima, iniziava il trasporto degli stessi nelle aie attraverso l’impego della treggia o straula, una sorta di slitta in legno tirata dai buoi, particolarmente adatta nei terreni accidentati o con elevati dislivelli, in alternativa al carro. Il trasporto dei covoni si faceva coincidere solitamente con le prime ore della giornata o al tramonto, al fine di evitare che nelle ore più calde si potessero sgranare le spighe e disperdere le cariossidi sul terreno.

Il numero delle aie poteva essere variabile in funzione del terreno seminato a cereali e del conseguente quantitativo di covoni prodotti; caratteristica comune per tutte le aie era, comunque, quella di essere esposte ai venti al fine di poter effettuare, in maniera rapida ed agevole, le diverse fasi della trebbiatura: la battitura (pisatina) nelle ore più calde della giornata, impiegando coppie di muli che giravano nello stesso senso orario; la successiva spagghiatina, consistente nel lanciare in aria il grano misto a paglia per mezzo di tridenti di legno; infine, la paliatina, un’ultima selezione del grano dalla paglia, effettuata con pale di legno. Seguivano altre fasi, quali la cernita del grano con crivelli di cuoio, i cosiddetti crivira d’aria ed il riempimento (‘a ‘nsaccatina) delle bisacce col grano ottenuto dalla trebbiatura. Nel particolare, la bisaccia (visazza), era costituita da una sorta di sacco realizzato con robuste tele, la quale veniva caricata sui muli per essere trasportata, comprensiva della derrata, fino ai magazzini (masazena), solitamente ubicati dentro il centro abitato, all’interno o nei pressi dell’abitazione del massaro. Il riempimento delle bisacce avveniva mediante un misuratore cilindrico realizzato in metallo o in legno, ‘u dumunnedda, capace di contenere, al colmo, circa kg 8,60 di grano.

La resa media, al giorno d’oggi considerata bassa, documentata in questi periodi varia dai 13 ai 18 quintali ad ettaro per il grano e fino a 20 quintali ad ettaro per l’orzo, cereale quest’ultimo più produttivo. L’orzo, infatti, dopo il grano, era anche il cereale più coltivato in Sicilia, seminato spesso sulle stoppie dello stesso grano oppure negli appezzamenti che avrebbero dato uno scadente prodotto in frumento; il più delle volte veniva impiegato nell’alimentazione degli animali da tiro e da soma.

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Nove o dieci muli, legati in fila, formavano una rètina, cavalcata in testa dal bordonaro (uddunaru), il conduttore degli stessi muli; ogni mulo portava sul proprio dorso fino a mezza salma di frumento, pari a circa 140 kg; pertanto, una rètina di muli riusciva a trasportare, per ogni viaggio, dalla masseria che era il luogo di produzione, al caricatore oppure al magazzino o ai luoghi di trasformazione dello stesso grano in farina, coincidenti con i mulini ad acqua, un quantitativo fino a circa 14 quintali. Lo stesso grano, trasportato nei magazzini, se non ammassato, veniva riposto in alti contenitori cilindrici privi di base, realizzati con canne intrecciate, denominati cannizzi, aventi una capacità variabile dalle 4 alle 12 salme di grano.

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Nicola Schillaci 

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