Troina: Rivoluzione contadina del 18 febbraio 1898. La cronistoria

Medaglie al valore militare a soldati che il 18 febbraio 1898 aprirono il fuoco sui dimostranti di Troina

Sulla sommossa del 18 febbraio 1898 che costò la vita ad otto persone mentre più di una cinquantina rimasero ferite su 94018.it hanno scritto a più riprese i colleghi Silvano Privitera, Silvestro Livolsi, Nicola Schillaci che assieme allo scrivente collaborano alla rubrica Pagine di Storia di Troina. Ne hanno analizzato le cause storiche, politiche, sociali ed economiche. I loro contributi, archiviati, sono facilmente recuperabili cliccando sul titolo della rubrica Pagine di Storia di Troina.
Perché torniamo su questa memorabile vicenda della storia locale? Per ricostruirne nel dettaglio fatti e svolgimento. E perché – grazie all’impagabile, pluridecennale attività di ricerca di Basilio Arona, di cui tutti noi troinesi non possiamo che essergli grati – successivi sviluppi sono stati scoperti di recente. Li riporteremo nella parte conclusiva di questo lavoro. Per parafrasare il titolo della più amata trasmissione radiofonica di sempre, daremo vita in queste pagine ad una sorta di Tutta ‘a rivoluziuoni’ minuto per minuto (a rivoluziuoni è stata definita dai nostri antenati troinesi sin dal primo momento la sommossa). E lo faremo trascrivendo intere pagine del saggio che nel lontano 1973 chi firma questo contributo – allora diciottenne – dedicò all’avvenimento. Consultando a Troina e Catania centinaia di documenti inediti e intervistando sei ottuagenari che, bambini, erano stati testimoni degli avvenimenti. Nel luglio 1974 la ricerca venne pubblicata in un volumetto di poco meno di cento pagine intitolato Troina, 18 febbraio 1898, sottotitolo Aspetti di una sommossa contadina sanguinosamente repressa, stampato dalla Sicilgraf di Catania. A oltre mezzo secolo da allora e pur con i suoi limiti, considerata la giovanissima età dell’autore, quel libro rimane il più completo lavoro di analisi di uno dei più sanguinosi episodi della millenaria storia della nostra cittadina.
Nel 1898 le proteste delle classi più misere dilagano in Sicilia. L’isola è alle prese con una delle sue cicliche carestie. A gennaio i primi disordini a Siculiana. Nello stesso mese proseguono a Militello, Canicattì, Realmonte, Sant’Agata li Fusi. A febbraio man mano scoppiano a Messina, Sant’Agata di Militello, Augusta, Catania, Spaccaforno, Avola, Baucina, Mistretta, Francoforte, Altavilla, Castellana. Il 16 febbraio disordini a San Marco e a Palermo, il 17 a Carini, il 18 a Ravanusa, Caltanissetta, Corleone, Marineo, Ciminna, Giarre, Isnello, Castelvetrano, Troina.

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Via Conte Ruggero al tempo della rivolta. La foto, di Alberto Felice Paternò Castello, è tratta da Giovanni Paternò Castello “Nicosia, Sperlinga, Cerami, Troina, Adernò”, Italia Artistica n. 34, Bergamo 1907.

 

La sommossa di Troina
Riportiamo, con qualche breve taglio per ragione di sintesi, l’intero capitolo La sommossa del libro Troina, 18 febbraio 1898.
L’inverno 1897-98 è particolarmente rigido. Un po’ ovunque in Italia imperversano condizioni climatiche decisamente ostili. Anche la Sicilia è ripetutamente colpita dal maltempo. Sui rilievi delle sue zone interne si registrano abbondanti nevicate.
() In uno dei numeri di febbraio il quotidiano Corriere di Catania pubblica la seguente corrispondenza:

Troina, 12 febbraio 1898. Da tre giorni nevica continuamente, e Troina è sepolta sotto la neve. Le linee postali sono interrotte e il servizio vien fatto da pedoni, dietro ordini venuti dalla Direzione provinciale delle Poste.
Con la neve che in certi punti seppellisce intere case, e in altri forma immensi accumuli insormontabili, la miseria, che prima restava latente o si manifestava con l’emigrazione, ora si mostra quale è veramente.
Difficile dare un quadro esatto dello stato lagrimevole in cui versano le classi povere e massime l’agricola, la quale non trova sufficienti sussidi nei proprietari, bersagliati come sono dal fisco e privati di quella immensa sorgente di ricchezza rappresentata dagli ubertosi vigneti, scomparsi con la filossera.
A lenire intanto l’opprimente miseria, si è venuto nella decisione di costituire un monte frumentario, mercé il concorso di vari proprietari, i quali per quelle rate distribuite a persone solvibili saranno rimborsati.
Non giungerà tale soccorso come il soccorso di Pisa?
Poiché è certo che vi vorrà del tempo a raccogliere i fondi necessari, e a costituire una amministrazione che si renda garante verso i singoli oblatori.
Non sarebbe stato meglio per il momento l’impianto di cucine economiche o la distribuzione di viveri, potendo così contribuire tutte le varie classi di cittadini abbienti?
Si sarebbe raggiunto il doppio scopo di essere il soccorso più immediato e di aiutare i veri poveri.
Ieri il Municipio ha fatto distribuire la somma di L. 500. Sarebbe stato certamente meglio la distribuzione di pane o altri generi alimentari poiché si è dovuto deplorare il fatto di essersi presentati a chiedere il sussidio persone capaci di darne; mentre che tanti disgraziati sia per età avanzata, sia per malattie che per altre ragioni, che non potevano uscire di casa, restarono senza un tozzo di pane per sfamarsi.
Le condizioni locali, dunque, sono quelle trascritte. E che siano drammatiche lo testimonia senza mezzi termini la costituzione del monte frumentario ad opera dei proprietari, dietro le sollecitazioni dell’Amministrazione comunale che appunto come tale può approfonditamente rendersi conto delle reali esigenze della popolazione.
Il Comitato di beneficienza di cui fanno parte gli esponenti più in vista del ceto dei possidenti si mette all’opera e riesce a raccogliere una discreta somma di denaro e una buona quantità di frumento. Ciò significa che nei magazzini privati esistono scorte di cereali ampiamente bastevoli per tutti, malgrado la crisi.
Il giorno 17 corrente (queste parole sono tratte dal rapporto sulla sommossa dei Reali Carabinieri all’Autorità Giudiziaria) ne iniziò la prima distribuzione gratuita ai più bisognosi senza che si fosse deplorato alcun inconveniente. Il seguente giorno 18, dovendosi procedere ad altra distribuzione ai meno bisognosi col patto della rivalsa senza interessi al mese di agosto prossimo venturo, questa condizione non persuase la maggior parte di tali individui.
Ecco un motivo saliente che può benissimo richiamarsi a presupposto di tutto quanto succederà nel corso di quel venerdì 18: la rivalsa al mese di agosto.
Sè fatta ad opera del Comitato di beneficienza una brava ripartizione: distribuzione gratuita a chi per poco o niente non muore realmente di fame, ma restituzione di quanto consegnato da chi si suppone possa avere i mezzi per rimborsare.
È un calcolo utilitaristico e presuntuoso. Difficile ed arbitrario imporre un parametro di valutazione tra affamati di categoria superiore od inferiore. La fame è uguale per tutti quando le riserve toccano il fondo. Inoltre, conseguente motivo di giustificato dissenso, se l’annata colonica dà risultati magri come le precedenti, coloro che debbono saldare il debito in agosto, con quali mezzi lo pagheranno?
Già la sera del 17, quando gli intenti del Comitato sono ormai manifesti, si comprende che qualcosa cova sotto le ceneri. Alle prime ombre le vie sono praticamente deserte; sotto la fioca luce dei lampioni solo rari passanti frettolosi e ben incappucciati per il freddo. Eppure è un giovedì di carnevale, una sera in cui è costume qualche festino e si balla anche se è un drastico carnevale d’emergenza. La gente preferisce stare rintanata nelle case. Si discute in famiglia, intorno al braciere. Per diversi giorni la neve non ha permesso ai contadini di recarsi al lavoro. Sono quindi tutti, o quasi, nelle abitazioni, alle prese con le intenzioni (che si preannunciano sempre spavalde nelle vigilie) di far valere per l’indomani i propri diritti. O forse è meglio affermare: i propri bisogni. Insomma, protesteranno contro il Comitato contando più che altro sul numero.
I contadini che hanno ottenuto la rata di frumento il primo giorno non sono stati molti; la maggioranza si deve presentare il giorno seguente per la concessione da rimborsare. Se presi uno ad uno quei coltivatori se la fanno addosso al cospetto di potenti ed autorità, in molti sono convinti di farsi autorevolmente sentire. È l’occasione per opporsi decisamente a quella che appare un’ennesima imposizione. La voce dell’insofferenza sè sparsa da contadino a contadino, da famiglia a famiglia.

Venerdì 18 febbraio. Dopo giorni grigi è un mattino chiaro, gelido ma sereno. Sembra un giorno come tutti gli altri, in più allietato da un pallido sole. La neve si è parzialmente sciolta, ma, considerata la gran quantità cadutane, enormi ammassi ghiacciati rimangono ai bordi delle strade.
Gli artigiani che hanno lavoro da completare si recano nelle loro botteghe dopo il forzato riposo per le condizioni meteorologiche. Gli scolari vanno regolarmente a scuola.
I contadini che debbono ricevere la rata di frumento (e non solo quelli) salgono verso il Municipio a gruppi. Discutono animatamente tra loro, alzano la voce. È giunta l’ora di alzarla. In breve si raccolgono davanti al palazzo comunale oltre 100 persone tra cui moltissime donne. Nascoste sotto la giacca o il pastrano affiorano sporadicamente scuri e bastoni. C’è tra loro chi tiene celata in tasca una rivoltella chissà da dove tirata fuori.
Si protesta decisamente contro il Comitato. Più che altro si protesta inconsciamente contro una società e un sistema di vita.
Il livello della tensione sale.
Dall’interno del Municipio cominciano a manifestarsi serie apprensioni, tuttavia i membri del Comitato presenti sono decisi a non ritornare sulle loro decisioni. E lo fanno intendere chiaramente.
Da una casa poco distante in cui è installato l’ufficio telegrafico il telegrafista Giuseppe Marino cerca di mettersi in contatto con Nicosia. Segnala che una dimostrazione è in corso a Troina. Sembra però che la comunicazione rimanga incompleta. Qualcuno ha tagliato i fili del telegrafo?

Il tempo trascorre. Aumenta il numero di coloro che si accalcano nella via (allora la piazza non esisteva). Si continua a vociare.
A un tratto una donna, Carmela Plumari, soprannominata Rubbuneddina, 56 anni, contadina che si trova un po’ in disparte rispetto agli altri, urla forte: Minchiuna, non viditi chi vi pigghinu pi fissa? e con uno scatto rabbioso si dirige verso l’ingresso del Palazzo comunale, subito seguita da qualche altro dimostrante. Un carabiniere (o una guardia comunale) posto a picchettare il portone abbozza una formale resistenza; viene urtato e finisce a terra.
Saliti al piano superiore si impossessano della bandiera municipale ed afferrato quel drappo, qualcosa a metà strada tra un trofeo, un simbolo ed una consacrazione, ritornano giù tra la folla.
La decisione prontamente presa è percorrere le vie cittadine, sfilare e così dimostrare.

Secondo allarmistiche notizie pervenute al Giornale di Sicilia di Palermo Una moltitudine invase il Municipio, malmenò gli impiegati, strappò la bandiera. Questi presunti eccessi sono del tutto privi di fondamento. Chi le telegrafò da Troina doveva avere tanta paura da amalgamare realtà e fantasia.
Viene formato il corteo. In testa orgogliosamente il vessillo, alternamente sostenuto dalla Plumari e da un contadino che poi rimarrà soprannominato U portabannera, dietro il popolo che, come sempre succede in casi del genere, perde la coscienza personale per ritrovarsene una collettiva, non si sa fino a che punto controllabile.

Dalla cosiddetta porta di Baglio si scende verso il Borgo percorrendo l’attuale via Roma. Altri uomini, altre donne, alcune delle quali si sono portate appresso i bambini, e qualche ragazzo affluiscono; il corteo si ingrossa a vista d’occhio. Ad aggregarsi sono pure Agostino Boccafurni, locale Delegato di Pubblica Sicurezza (il grado corrisponde attualmente a quello di vice-commissario) giunto precipitosamente dal suo ufficio situato nel quartiere San Procopio; Luigi Salazar, Tenente di fanteria, comandante del distaccamento dell84° Fanteria a Troina; Paolo Bozzetti, Maresciallo d’alloggio a piedi, comandante della stazione dei Reali Carabinieri di Troina.
Sono soli; niente militari, niente armi. Sperano di smontare le pretese dei contadini con le buone, per ora. L’intento è operare una mediazione e cercare con tutti i mezzi di sciogliere la manifestazione.
Boccafurni, mezza età, una buona dose di sangue freddo (o semplicemente forza della paura?), tira fuori tutti gli argomenti possibili per calmare i dimostranti, appare conciliantissimo. Ricorre ad un espediente che crede possa rappresentare una valida soluzione: chiama Bozzetti; per dare soddisfazione ai dimostranti lo invita a riunire e fare venire i membri del Comitato. Si vorrebbe comporre la vertenza in questo modo.
Bozzetti obbedisce; si allontana per eseguire la sua missione.

Rimangono Boccafurni e Salazar.
Il primo continua la sua opera di mediazione, si dimostra quanto più bonario e paterno. Le sue parole però non è che abbiano molto ascolto e credito.
I dimostranti scandiscono: A fami avimu! A fami avimu!.
Altri dimostranti si aggiungono man mano che si scende dal Borgo verso San Basilio (). Complessivamente sono diverse centinaia.
Il giovane tenente Salazar non mostra eccessiva fiducia in una pacifica composizione. Si stacca dai dimostranti. Visto che le cose si mettevano a male, corse per andare ad adunare il picchetto armato. (Dal rapporto dei Carabinieri allA.G.).
Boccafurni resta solo e sono per lui momenti da pentirsi seriamente di essersi arruolato nella Polizia. Il fatto è che a un certo punto il Delegato, in prima linea dietro la bandiera, si ritrova con una scure puntata alle spalle. Nell’agitazione generale qualcuno ha totalmente smarrito la bussola e vuole esternare in una giornata di lotta i rancori accumulati in anni di vita.
Il popolo continua a gridare: Avimu a fami! Vulimu u pani!. Boccafurni, che gioca tutto, replica: Ditemi quali magazzini volete aperti e io ve li faccio aprire.
Si giunge così al quartiere San Basilio. Qui altri gruppi si infilano nel mezzo.

In Piazza intanto affiorano chiari segni di timore. Verso le 11 il direttore didattico Mariano Foti Giuliano, pubblicista, uomo di considerevoli capacità letterarie (è probabilmente lui l’autore della corrispondenza sul Corriere di Catania riportata sopra, n.d.r.) gira le classi dell’istituto Napoli Bracconeri. Il paese è in rivoluzione; andate tutti a casa dritti dritti senza stare fuori dice con tono quanto più autoritario e minaccioso nell’intento di essere ascoltato dagli scolari. Molti ragazzi, però, incuriositi dal fatto assolutamente eccezionale, rimangono lungo le vie a godersi quello che per loro è solo uno spettacolo gratuito.

Il maresciallo Bozzetti parla con il presidente del Comitato. Vorrebbe convincerlo ad andare incontro ai dimostranti per una chiarificazione. Ma questi non si sogna neppure di buttarsi dalla padella alla brace. Prima diplomaticamente tergiversa, poi rifiuta categoricamente. Le insistenze di Bozzetti sono vane. Il maresciallo non desiste: si mette in contatto con altri elementi del Comitato sperando che qualcuno sia meno evasivo del presidente. Ma nessuno si uniforma alla richiesta del sottufficiale. I suoi vani tentativi non fanno altro che portargli via tempo in estenuanti e scontate discussioni.
Non può fare altro che mandare due militi, l’appuntato Ruggeri Maggio Pietro e il carabiniere Marino Carlo, in aiuto del Delegato.
Si assottigliano le possibilità di comporre la vertenza col negoziato.

I proprietari nutrono serie preoccupazioni, se non paura. Un episodio può essere indicativo: uno di essi, Ruggero Pratofiorito, spranga la sua abitazione e si rifugia con la moglie nella vicina casa della famiglia Furnò dove ritiene non lo andranno a scovare. Possono prendersi tutto il frumento che vogliono esclama alludendo ai dimostranti ma la vita no!.
Non tutti quelli del suo ceto sono comunque di quest’avviso. L’abitazione del notaio Gaspare Polizzi è proprio di fronte alla principale via di accesso alla Piazza (ora casa Di Franca-Scorciapino, n.d.r.); nel suo interno si asserraglia un discreto numero di possidenti con i familiari. Ripongono su un ampio tavolo munizioni e fucili. Sono decisi a tutto. Se i dimostranti ritorneranno con l’intenzione di saccheggiare i magazzini di frumento, non appena si faranno vivi saranno accolti a fucilate dai balconi e dalle finestre da cui si può controllare l’antica ex porta di Baglio.

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Nella casa Polizzi (ora casa Di Franca-Scorciapino) un gruppo di possidenti si asserragliò con le armi nella mattinata del 18 febbraio 1898 per impedire il ritorno dei dimostranti in Piazza.

Con probabilità altri nuclei di resistenza si appostano in altri punti strategici da cui è possibile dominare gli accessi secondari alla Piazza.
Vincenzo Squillaci in Chiese e Conventi (pubblicato nel 1972) sostiene che accanto ai proprietari fossero per dare loro manforte anche operai. Forse usa questo termine per indicare i più agiati esponenti del ceto degli artigiani o al massimo operai alle dipendenze esclusive e di fiducia delle varie famiglie benestanti. Per quanto egli evidentemente ne sappia più di me su questo aspetto e ne sia possibilmente stato testimone oculare, anche se bambino, non si può parlare di operai alleati con i possidenti. Il contegno invece sia degli artigiani che degli operai (o per lo meno della sostanziale maggioranza di essi) è di neutralità. Si preferisce non esporsi. La giornata di lotta è tutta dei contadini.

Costoro, dopo una sosta nella piazzetta di San Basilio, proseguono la loro marcia. Poco oltre, all’altezza dell’attuale civico 49 di via Umberto, la vicenda comincia a colorarsi vistosamente di giallo. Boccafurni, più che mai solo, ha un vivace scambio di idee con qualcuno dei dimostranti, forse tira fuori non troppo velate minacce. Uno di loro, inteso Cartafauza, offeso o irritato dalle parole del delegato, in uno scatto d’ira alza l’accetta che tiene con sé per colpirlo. E lesto a questo punto il fabbro Salvatore Lo Turco che ha l’officina al numero 49 e sulla soglia ha seguito tutta la scena: rendendosi conto delle intenzioni di Cartafauza con una intuizione feline riesce a farglisi incontro e trattenere prontamente il colpo. Altrimenti povero diavolo di Boccafurni.
È un momento; quelli che seguono non se ne sono neppure accorti. Il Delegato, in comprensibile stato d’animo, riprende i suoi tentativi. Non dubitate grida ora qui siamo vicini ai magazzini della famiglia L’Episcopo; chiamiamo un mediatore e vi faccio misurare tutto il frumento di cui avete bisogno.
Gli risponde alle spalle un coro: Avanti! Avanti!.
Non se ne fa tuttavia nulla. I dimostranti continuano il cammino e Boccafurni con loro.
La realtà è che nessuna delle due parti ha una precisa idea sul da farsi. O meglio, il Delegato sa il fatto suo: vuole guadagnare quanto più si può spendendo il meno possibile. Usa il sistema del bastone e della carota. Più della carota che del bastone, a dire la verità, visto che è in cattive acque. Mentre il popolo ha completamente perso la testa. Vi sono pochi individui che in virtù duna personalità più spiccata si sono ritrovati dun tratto capi. Gli altri vengono dietro, si fanno trascinare.
Per cui il sottile, pericolosissimo gioco del funzionario continua.

Percorrendo sempre la via Umberto egli, poco prima di giungere al convento dei Cappuccini, addita nei pressi della sottostante chiesa di San Silvestro l’abitazione di una famiglia di possidenti (attuale casa Fiore). Ripete il suo discorso per calmare gli animi agitati: Lì ci sono magazzini; non dubitate, chiamiamo un mediatore per farvi misurare il frumento che volete. Al solito, grida, approvazioni, discorsi alla buona ma nessuno muove un dito.

Arrivano così alla punta estrema dell’abitato sulla strada che porta a Cesarò, lo Stretto di San Giorgio. La bandiera orgogliosamente portata bene in vista viene piantata per terra.
Si decide confusamente sul da farsi: o restare lì fino a sera per ritornare col favore delle tenebre (chi accenderebbe i lampioni in quel clima da guerra civile?), animati dalla non troppo celata intenzione di saccheggiare i depositi di grano che si sanno ben forniti e così vendicarsi una volta per tutte dei soprusi accumulati in anni di effettiva servitù, oppure ritornare e andare in Piazza.
Che il clima sia talmente infuocato da promettere assalti notturni con tutte le conseguenze lo testimonia questo fatto. Due giovani manovali scendendo dalla via Abbate Romano per unirsi ai dimostranti che in quel momento avevano da poco oltrepassato San Basilio si sentono apostrofare da una anziana signora affacciata alla finestra: “Chi succiedi?”. Rispondono con distacco: “Stasira vi facimu vidiri”: (…)

Prevale la seconda prospettiva. Lunghi minuti di discussione e prima di mezzogiorno si innalza nuovamente la bandiera. Viene ripercorsa la stessa via in senso inverso, con molto meno frastuono, quasi in silenzio.

Dalle aperture i cittadini rimasti in casa osservano. C’è chi viene invitato da qualche amico o parente che è nel mezzo: “Vieni cu nuatri?”. Alcuni seguono l’invito; altri calano la testa ma subito dopo si ritraggono e chiudono la porta. Il quieto vivere innanzitutto.

Dopo una sosta nei pressi della piazzetta di Santa Caterina ripartono (sembra di assistere ad una processione con itinerario, tappe e fermate).

 

Poche decine di metri oltre, andando verso il Borgo, vi è a destra una scalinata, l’attuale via Pettinato. Addentro in questa traversa è il palazzone dei Pettinato, considerevole famiglia locale. Un “commando” (si fa per dire) di dimostranti sale di fretta la scalinata e rivolge imprecazioni nei confronti di quelli all’interno che, barricati alle finestre, hanno sottomano le armi.

Ma c’è chi tiene implacabilmente tra le mani carta e matita e farà pagare a caro prezzo quel gesto. Gaetano Pettinato, medico, li conosce un po’ tutti appunto per la sua professione. Annota nomi su nomi, di chi brandisce scuri o bastoni, di chi s’è fermato, di chi passa oltre.

Ultimata la puerile scenata e continuando a brontolare i dimostranti si allontanano al loro vago grido: “A fami avimu! A fami avimu!”.

 

Di fronte a tanta incredibile genericità di richieste Boccafurni, raggiunto frattanto dai due carabinieri, ha buon gioco. Considerate le premesse, al punto in cui si è, la situazione non sembra esplosiva.

Rimane un sostanziale interrogativo di fondo: che farà quella massa di persone una volta giunta in Piazza? Si scioglieranno, contenti d’aver dato una prova delle loro potenziali possibilità, e tutto finirà così irrisolto e per aria, o piuttosto, forti dell’assieme, metteranno sottosopra i depositi di grano dei privati?

Secondo il rapporto dei Carabinieri: “…Malgrado l’aiuto in parola i dimostranti facevansi sempre più audaci al punto tale che il funzionario suindicato (è il Delegato evidentemente) …mandò a chiamare la truppa per mezzo del carabiniere Marino Carlo”.

E la truppa, tutto il distaccamento di Troina, 12 uomini, classe di leva militare 1874 e in più il tenente Salazar, o perché riesce effettivamente ad avvisarla il carabiniere Marino o più sicuramente perché l’ufficiale l’ha portata lì da tempo, si fa puntualmente trovare al Borgo sulla sommità della salita.

La consegna è categorica: impedire ai rivoltosi il proseguimento verso la Piazza. E mezzogiorno circa (più probabilmente oltre mezzogiorno, n.d.r.).

I dimostranti sono arrivati al quartiere Borgo. Iniziano la ripida salita dell’odierna via Garibaldi.

 

I militari, inquadrati prevalentemente sul lato sinistro della strada, tra casa Foti e casa Marino, seguono attentamente quella folla numerosa, variopinta, chiassosa. I contadini li scorgono.

Trascorrono alcuni minuti interminabili.

Quando i tumultuanti sono a qualche decina di metri dai 12 soldati rinforzati da due carabinieri (Marino e Bernardi) il tenente li fa disporre in linea sulla strada, l’uno accanto all’altro, in modo da ostruire il passaggio ai contadini.

 

Ma questi non si fermano. Piuttosto rallentano.

Ai bordi della strada ammassi di neve ghiacciata. Qualcuno stende una mano, raccoglie un pezzo di ghiaccio e lo lancia verso il picchetto. Altri lo seguono. Altri afferrano una pietra dal selciato sconnesso della via. Si grida, si tira con

e militare porta la mano ad una parte del corpo colpita dalle pietre e dal ghiaccio.

Boccafurni, che s’è trovato nel bel mezzo del tafferuglio, è ferito. Salazar comanda con voce tagliente: “Scioglietevi!”. L’effetto è tutto al contrario. La folla si accalca, non c’è più distinzione.

Il tenente ordina di innestare la sciabola-baionetta ai fucili. L’ordine, eseguito con qualche difficoltà vista la ressa, non ottiene il risultato sperato. “Anche questo tentativo fu inutile perché i ribelli sempre più audaci minacciavano seriamente i militari”. (Dal rapporto dei Carabinieri).

Una sassata colpisce in fronte il carabiniere Bernardi. Sul volto gli scorre abbondante sangue. L’appuntato (dei Carabinieri, n.d.r.) Ruggieri viene colpito da un sasso di striscio alla testa; gli cade il berretto dell’uniforme. Si abbassa per prenderlo da terra ma uno dei rivoltosi, inteso Liamedda, zoppo, gli assesta con il bastone che porta abitualmente una tale mazzata alla scapola sinistra che il graduato si rialza a fatica.

Il tenente stesso viene colpito da una legnata alla mano.

Salazar, su cui ora ricade la responsabilità d’ogni misura, ricorre ad un ulteriore tentativo. Ordina con tutta la voce che in gola di caricare le armi e poi fa sparare in aria “siccome – sostiene l’istruttoria – dalla folla erano partiti 4 colpi di arma da fuoco (pistola)”.

 

Trascorre qualche secondo. “Il pericolo crescendo sempre di più e potendo ogni minimo indugio arrecare chissà quali funeste conseguenze, anche a discapito del prestigio delle autorità, fu ordinato dal sig. Tenente stesso il fuoco contro i ribelli”. (Dal rapporto dei Carabinieri).

I soldati sparano coi loro fucili a più riprese. I carabinieri Bernardi e Marino coi loro moschetti d’ordinanza. L’appuntato Ruggieri estrae la rivoltella dalla fondina, cerca nella confusione Liamedda, lo individua, gli spara tre colpi di pistola all’altezza della bocca e lo fredda.

Il marescialle Bozzetti che, reduce dalla sua estenuante missione fallita, si avvicinava al luogo dello scontro “non esplose alcun colpo”.

 

La folla già al primo colpo ondeggia, si sbanda. Grida, urla, imprecazioni. Si corre da tutte le traverse, si scappa. Nel volgere di pochi istanti della straripante moltitudine di prima rimangono alcune sagome che si lamentano, vacillano, strisciano.

In piedi con le loro armi ancora calde in mano uomini in divisa. Per terra accanto a pozzanghere di sangue corpi senza vita”.

 

Le indagini e i processi

Siamo riusciti a risalire ai nominativi di sette degli otto dimostranti uccisi dalla forze dell’ordine, quelli portati sbrigativamente al cimitero – tutti su di un carro – sabato 19: Silvestro Bonanno, sposato, 46 anni; Santo Trovato (dovrebbe essere Liamedda), vedovo, 64 anni; Antonio Chiavetta, 24 anni; Paolo Vinci Ruzzolone, 10 anni (seguiva le fasi dello scontro davanti ad una porta con la curiosità della sua età); Angela Bonanno, sposata, 26 anni; Filippo Calabrese, sposato, 36 anni; Giuseppa Polizzi, nubile, 35 anni.

Il numero preciso dei feriti non si saprà mai. Quaranta quelli accertati. Ma in tanti si disperdono nelle campagne, a costo di infezioni e cancrene, pur di non farsi curare e quindi arrestare in quanto partecipanti alla sedizione. Più attendibile il dato di una cinquantina, probabilmente più.

Stesso discorso per il numero dei dimostranti. Trecento secondo un primo dispaccio dell’agenzia di stampa “Stefani”. In realtà sono molti di più, forse più del doppio.

Secondo il quotidiano “La Gazzetta di Catania” “le cartucce esplose dai militari durante il tafferuglio sarebbero 62”. E aggiunge: “Si deplorano non pochi ferimenti di persone estranee alla dimostrazione e rinchiuse nella loro abitazioni dove si videro visitate dalle palle attraversanti le loro imposte”.

Le indagini della Regia Procura di Nicosia iniziano già la sera del 18 con i primi arrivi a Troina, proseguiti l’indomani, da Nicosia, da altri comuni del circondario e poi da Catania, di un gran numero di magistrati, ufficiali, carabinieri e oltre cento militari dell’esercito. I primi tre arresti sono effettuati nella stessa tarda serata di venerdì 18.

Le indagini proseguono in modo serrato il 19 fino al pomeriggio del 20. Il paese è in stato d’assedio. Gli arresti si susseguono per settimane e proseguiranno fino al 15 aprile quando l’ultimo degli indagati sarà arrestato ad Agira.

Questi i referti sulle ferite riportate dal personale delle forze dell’ordine negli scontri: “Lesioni in varie parti del corpo guaribili in 20 giorni per il Delegato di Pubblica Sicurezza Boccafurni Agostino; il tenente di fanteria Salazar Luigi; l’appuntato dei Reali Carabinieri Ruggieri Maggio Pietro; il carabiniere a piedi Bernardi Pietro; i soldati di fanteria Bizzini Giuseppe, Di Pietro

Carmelo, Orlando Luigi, Cavallaro Carmelo, Oliardi Pietro, Di Gregori Paolo, Laineri Salvatore”.

 

A parte miseria e fame vera, sullo sfondo della rivolta emergono anche beghe amministrative. Ma non sobillazione socialista. Torniamo ad un altro capitolo del nostro libro “Troina, 18 febbraio 1898”:

“Scrive nel suo rapporto il maggiore dei Carabinieri che coordina le indagini: “Dalle indagini assunte da tutte le autorità e da me risulta in modo evidente che il disordine nacque improvviso per la questione frumentaria e non certo per opera di sobillatori politici. Fu affare del momento che imbaldanzì i malvagi eccitanti la folla, quindi a mio subordinato parere nessuna prevenzione poteva avere luogo data anche la pacifica cittadinanza di quel comune che mai espresse intenzioni ostili contro le autorità costituite”.

Ogni accusa di sobillazione socialista è dunque infondata. Piuttosto una diceria, che s’è sempre cercato di soffocare, merita un barlume di attenzione.

Allora si mormorava sommessamente che c’era stata una sobillazione o qualcosa di simile, ma per ben altri motivi che mire rosse.

“Non chiare rimasero le cause di questa stupida rivolta – sostiene Squillaci (nel suo “Chiese e Conventi”, n.d.r.) – essendo in precedenza già organizzato un ragguardevole Monte Frumentario per provvedere ai bisogni dei ceti più poveri… Pare piuttosto che gli anzidetti disordini siano stati provocati dalla opera di sobillazione sullo sfondo di lotte ammnistrative, da parte di pochi irresponsabili che specularono sulla ignoranza delle masse contadine”.

Si nota da queste righe un certo astio dei confronti dei dimostranti, relativamente comprensibile se si considera che la famiglia Squillaci, una delle più agiate del paese, era dall’altra parte della barricata nei confronti dei rivoltosi e quel giorno dovette sentirsi seriamente minacciata. Evasa questa opportuna precisazione, a chi sono da attribuire le segretissime sobillazioni?

Affiorano a galla il cognome e il nome di Di Giunta Francesco (per tutti don Ciccio Di Giunta). Non sono capace di precisare se si tratti di Di Giunta Sinopoli Francesco fu Andrea o di Di Giunta Napoli Francesco fu Giovanbattista. Comunque è uno dei due. L’obiettivo di Di Giunta, ricco possidente e gran politicante, è di scalzare dalla sua poltrona di sindaco Federico Sollima. Tra i due intercorre una antipatia a tutti nota. Non si può parlare di lotte di partito in quanto le posizioni politiche dei due proprietari sono ampiamente concordi nel conservatorismo. Inoltre la vita politico-amministrativa locale ha ben poco di partitico; contano gli uomini. Unica spiegazione logica: l’ambizione personale, staccata dal resto.

Qualche giorno prima del 18 Di Giunta, mentre nei suoi magazzini si procedeva alla pulitura del frumento, si rivolge senza peli sulla lingua a tre suoi dipendenti che, cernendo il frumento, si lamentavano delle loro condizioni: “Parlati e parlati… E picchì non vi pigghiati a bannera e faciti a ruvoluziuoni? Picchì no livati a chissu?”.

Si riferiva a Sollima. Queste parole, collegate ad altre dello stesso calibro pronunciate da tempo, non rimangono dimenticate. Ed in effetti i dimostranti ad espressione della loro sfida si impossessano della bandiera, fanno la loro rivoluzione.

Allora, si dirà, è scoperto il movente e il motivo di tutto. Niente affatto, secondo me. Sono disposto ad ammettere un ruolo ancora più concreto, incisivo ed efficace di Di Giunta, ma non posso ammettere che alla radice di tutto ci siano le sue macchinazioni. Sarebbe stato ampiamente sospettabile se le condizioni dei contadini troinesi non fossero quelle miserevoli su cui sono tutti più o meno d’accordo. Ma a Troina si pativa la fame vera. E la gente pacifica e laboriosa si ribella, tenta il tutto e per tutto, perde il lume della ragione, solo quando non ne può più. È assurdo che quei contadini si permettessero certi “lussi” con un funzionario di polizia verso cui ognuno di loro aveva un rispetto servilistico, a cominciare da chi voleva spedirlo all’altro mondo, ed alla fine si facessero sparare addosso per gli intenti di uno che certamente non sapeva neppure cosa fosse la loro fame.

Che i rivoltosi si siano comportati grettamente da ignoranti, con tutte le possibili implicazioni, non si nega (d’altro canto l’ignoranza non è colpa loro), ma ignoranza non significa affatto idiozia. Un Sollima o un Di Giunta sindaco cosa sarebbe cambiato nella loro vita così profondamente da meritare un’aperta ribellione con tutte le sue gravi conseguenze?”.

 

A processo nell’affollato Tribunale di Nicosia il 14 aprile 1898 vanno 72 imputati. I testimoni a carico sono 41 e i testimoni della difesa 71. Il dibattimento si concluderà il 22 aprile. La sentenza condanna 58 imputati, tra cui 7 donne, e ne assolve 14. Reati contestati: 1) Associazione a delinquere. 2) Violenza e resistenza all’Autorità “per avere nelle stesse circostanze in numero di più di dieci persone con getto di pezzi di ghiaccio e di pietre, con colpi di bastone e di accetta e con esplosione di colpi di arma da fuoco usato violenze e minacce al Delegato di P.S. Barrafurni Agostino ed al tenente di fanteria Salara Luigi – i cognomi di entrambi sono effettivamente così storpiati nella sentenza – a carabinieri e soldati mentre adempivano ai doveri del proprio ufficio”. 3) Lesioni personali. 4) Per quattro dei dimostranti (Di Fini Silvestro, Santoro Nacchio Silvestro, Militello Salvatore e Chiavetta Domenico) porto abusivo di pistola. Complessivamente le pene raggiungono i 983 mesi di reclusione ossia un totale di quasi 82 anni di carcere. Vanno da un minimo di 9 mesi e 21 giorni a un massimo di 26 mesi e 20 giorni.

Di seguito l’elenco completo dei condannati. Il primo numero tra parentesi si riferisce all’età di ognuno, il secondo ai mesi di reclusione a cui si è condannati e l’eventuale terzo numero ai giorni di reclusione oltre ai mesi. Tanti lettori nei cognomi e nei nomi ritroveranno loro trisavoli e trisavole.

Nicolò Cittadino (27-20); Silvestro Nacchio Santoro (47-26-20); Salvatore Messina (22-20); Francesco Virzì (34-20); Alberto Tomasi (26-23); Salvatore Trovato (44-20); Silvestro Cocò Carmeci (47-22); Domenico Timpanaro (21-11-20); Pietro Cortese (27-10); Santo Di Carlo (29-11-20); Carmelo Petronaci (43-20); Silvestro Zitelli (42-20); Antonino Amato (42-23); Mario Castellano (30-23); Elena Noce (34-10); Gaetana Grasso (35-12-15); Rosalia Pagano (56-20); Carmela Plumari (56-23); Rosa La Ferrera (42-20); Maria Cantale (20-9-21); Silvestra Garra Picardi (24-11-20); Antonino Gagliano (27-20); Salvatore Rizzo (20-16-20); Silvestro Di Fini (47-26-20); Francesco Miraglia (40-10); Giuseppe Schinocca Sola (20-16-20); Michele Contini (27-11-20); Salvatore Compagnone (41-11-20); Antonino Schinocca Sola (24-18); Giuseppe Rizzo Ciaffi (42-11-20); Basilio Impellizzeri (32-11-20); Silvestro Spadafora (26-20); Francesco Marino (46-23); Giuseppe Rizzo (30-23); Carmelo Raffaele (25-20); Francesco Pacino (38-10); Carmelo Fallico (27-20); Salvatore Pacino (36-10); Silvestro Trovato Lo Morto (35-20); Antonino Romano (42-20); Filippo Aleppa (28-10); Francesco Chiavetta (50-23); Giovanni Trovato Cartafauza (49-11-20); Alberto Miraglia (48-11-20); Francesco Signore (24-11-20); Luciano Calmi (29-20); Salvatore Monastra (39-11-20); Antonino Monastra (58-21); Nunzio Trovato Rivoli (32-20); Domenico Chiavetta (33-26-20); Gaetano Allegra (49-11-20); Silvestro Trovato Cartafauza (35-20); Ercole Garofalo (34-11-20); Antonino Cantale (35-11-20); Antonino Di Fini (40-11-20); Giuseppe Cittadino (27-20); Salvatore Militello (41-20); Silvestro Calabrese (27-10).

 

Il processo d’appello a Catania inizia il 17 agosto 1898. Comminerà notevoli riduzioni di pena, non provate reità, assoluzioni per non provata reità. Gran parte dei condannati completa la detenzione nel carcere di Acireale mentre dopo gli arresti e il processo di primo grado i detenuti erano stati quasi tutti ristretti nel carcere di Nicosia. Nel carcere di Acireale morirà, per dissenteria sanguigna, lo sfortunato trentenne Giuseppe Rizzo, divenendo così una sorta di vittima aggiunta della sommossa.

“A primavera inoltrata del 1899 i detenuti per i tumulti di Troina, scontata la pena loro inflitta, sono tutti nuovamente in libertà. Ritornano nei campi, alle prese con il sudore di sempre. Fatiche pesanti ma che significano riaffacciarsi alla vita”.

 

Le medaglie al valore militare per i fatti di Troina

Sin qui “a rivoluziuoni” di Troina. Episodi come quelli che si verificarono nella nostra cittadina caratterizzeranno il 1898 non solo in Sicilia. Culmineranno dal 6 al 9 maggio nei tumulti di Milano. Provocati dal raddoppio del prezzo del grano a causa degli scarsi raccolti da 36 a 60 centesimi di lira al chilo e noti con varie definizioni: “moti del pane”, “rivolta dello stomaco”, “quattro giornate di Milano”, “massacro di Bava Beccaris” (le prime due definizioni potrebbero essere usate anche per i tumulti di Troina). A Milano il generale Fiorenzo Bava Beccaris fa le cose in grande. Fa sparare alla folla dei rivoltosi niente meno anche con i cannoni: 80 morti, 480 feriti, 850 arrestati secondo le cifre ufficiali, quasi sempre …addomesticate. Infatti dall’altra parte della barricata fonti del popolo arrivarono ad indicare 400 morti, 2000 feriti, 1750 arrestati. Due soli caduti tra le forze dell’ordine, uno sparatosi accidentalmente e l’altro fucilato sul posto per il suo rifiuto di aprire il fuoco sulla folla. Numeri che si commentano da soli. In segno di riconoscimento, il 5 giugno 1898 Bava Beccaris fu insignito del titolo di grande ufficiale dell’Ordine militare di Savoia dal re Umberto I e nominato senatore del Regno il 16 giugno. A Palazzo Madama aderì al gruppo della Destra storica. Il 29 luglio 1900, a Monza, Umberto I venne assassinato dall’anarchico Gaetano Bresci, che dichiarò esplicitamente di aver voluto vendicare i morti del maggio di due anni prima e l’offesa della decorazione al criminale Bava Beccaris, il quale definì il regicida «un folle che meriterebbe di subire lo squartamento».

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Milano. Artiglieria in piazza Duomo nelle giornate dei moti popolari scoppiati a causa del raddoppio del prezzo del grano (6-9 maggio 1898). Il generale Fiorenzo Bava Beccaris fece sparare sui dimostranti anche con i cannoni. Foto tratta da Luca Comerio “Illustrazione popolare, 1898”.

 

A questi fatti storici aggiungiamo adesso un ultimo tassello, recentemente “scovato” da Basilio Arona nella sua incessante attività di ricerca storica, documentale, etnoantropologica. Nel mese di febbraio del 2024 Basilio comunicava allo scrivente di avere scoperto che a tre militari che avevano partecipato alla repressione del tumulto di Troina il Governo nazionale aveva concesso onorificenze al merito e inviava la documentazione del caso. Ossia la “Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia” numero 145 di giovedì 23 giugno 1898, pagina 2273.

Riportiamo il testo integrale del provvedimento in “Gazzetta”:

“MINISTERO DELLA GUERRA – RICOMPENSE a coloro che maggiormente si distinsero in occasione dei disordini avvenuti in febbraio e maggio 1898 e che non furono compresi nella precedente concessione. Determinazione Ministeriale approvata da S.M. (Sua Maestà, n.d.r.) in udienza del 16 giugno 1898:

Per i fatti di Troina [Catania] (18 febbraio 1898).

Medaglia d’argento al valor militare.

Salazar Luigi, tenente 84 fanteria.

Affrontò, con pochi soldati del distaccamento, una turba di contadini rivoltosi che con bastoni e sassi inveivano contro la truppa e, ferito ad una mano, tenne contegno fermo, distinto e coraggioso, facendo uso del fuoco per non lasciarsi sopraffare e riuscendo a disperdere i tumultuanti ed a ristabilire l’ordine.

Medaglia di bronzo al valore militare.

Cubeddu Ponziano, soldato 84 fanteria, n. 2774 matricola, e Cavallaro Carmelo, id.84 id. n. 3280 id.

Nella circostanza di cui sopra spiegarono energia e coraggio e specialmente, il primo, nel respingere con viva forza i rivoltosi che volevano impadronirsi della sua sciabola-baionetta, caduta per un colpo di scure, ed il secondo, nell’aver coraggiosamente lottato, sebbene ferito, per riprendere il berretto caduto al proprio tenente”.

Nella stessa Gazzetta Ufficiale leggiamo di medaglie di bronzo e di encomi solenni concessi ad altri militari per fatti analoghi accaduti a Modica, Milano, Genzano di Roma.

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La pagina della Gazzetta Ufficiale nella quale si dà comunicazione delle ricompense a tre dei militari che spararono a Troina sui contadini in rivolta.

 

Leggere di queste ricompense e le loro motivazioni sulla “Gazzetta Ufficiale” lascia molto amaro in bocca. Che razza di Stato è uno Stato nel quale si premiano i militari che aprono il fuoco su una folla di cittadini, di uomini, donne e persino bambini? Certo, entrare nella mentalità – politica, giuridica, sociale – di chi governava centoventidue anni fa con la mentalità di oggi non è facile e forse non è neppure corretto come metodo di analisi storiografica. Altri tempi, altra durezza. Il Governo del Presidente del Consiglio Antonio Starabba, marchese di Rudinì – peraltro siciliano, nato a Palermo da famiglia originaria di Piazza Armerina – nel 1898 brillava per autoritarismo. Ed è altrettanto vero che in quella tragica giornata sarà stata tutt’altro che invidiabile la posizione, al pari della situazione, del giovane tenente Salazar, del soldato Cubeddu (sicuramente sardo) e del soldato Cavallaro. Avranno pure fatto niente altro che il loro dovere come gli altri colleghi, non sono massacratori o criminali di guerra. Ma medaglie ed encomi assegnati a seguito di scontri che sanno di fame e miseria, ebbene quelli no. È il colmo. Onorificenze al merito per quelle tragiche vicende a noi sembrano decisioni inaccettabili. Un insulto alla memoria di uomini e donne uccisi – e anche ai feriti – in quel sanguinoso e memorabile venerdì 18 febbraio 1898.

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Lapide commemorativa fatta apporre dall’Amministrazione comunale nel luogo dell’eccidio in piazza Garibaldi nel centenario della sommossa.

 

Pino Scorciapino

(con la determinante collaborazione di Basilio Arona

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